“Questa è la mia isola felice”: l’atteso ritorno dell’autrice a San Donà di Piave
Chiara Gamberale è arrivata in marzo e ha portato la primavera. L’autrice ha riempito lo spazio con il suo corpo minuto da ragazzina che veste una taglia grande di carica umana, e ha disteso metri di sguardi avvolgenti per abbracciare con gli occhi centinaia di persone venute appositamente per lei. Persone che se ne sono andate stringendo forte tra le mani il libro autografato, certe di aver ricevuto – tutte, una per una – attenzioni speciali.
Leggere i romanzi di Chiara Gamberale è un po’ come confidarsi con un’amica, una di quelle che conosciamo da sempre. C’è un’atmosfera intima, ma anche molto concreta, di vita vera descritta senza imbarazzi, nelle sue storie, che proprio per questo diventano le nostre.
Il suo ultimo romanzo edito da Feltrinelli s’intitola L’isola dell’abbandono ed è ambientato in gran parte a Naxos, l’isola in cui Teseo lasciò Arianna, nonostante lei lo avesse aiutato a uscire dal labirinto: da qui l’espressione “piantare in asso”, cioè piantare in Naxos.
“L’isola dell’abbandono ha come protagoniste le trasformazioni a cui la vita ci chiama quando irrompe e ci toglie l’illusione di avere il controllo. Questo succede tre volte nell’esistenza di ognuno: quando ci innamoriamo, quando qualcuno che amiamo muore o ci abbandona e quando nasce un figlio. In dieci anni la protagonista avrà tutte queste esperienze, alle quali lei e gli altri personaggi saranno chiamati a rispondere. È un libro dedicato non a una persona specifica, ma a chi ha il coraggio di restare: dentro una relazione, dentro la propria pelle, dentro quello che succede”.
La protagonista deve andare a Naxos per ritrovare se stessa e dare un senso a ciò che è stato. Perché la vita, vivendo, accade. E accade così continuamente, così ostinatamente, che ci distrae, facendoci perdere per strada il nucleo della nostra anima. Per rimediare bisogna tornare indietro, recuperare quel nucleo rimasto incastrato tra le pieghe del passato, e riportarlo avanti con noi nel momento attuale. Oltre a chi resta, quindi, L’isola dell’abbandono potrebbe essere dedicato anche a chi ha il coraggio di tornare…
“Certo, perché restare non vuol dire stare fermi. Significa essere in movimento aderendo però alla propria pelle. È un’idea dinamica del restare: restare a contatto con se stessi. La vita ci dice di abbandonarci, ma fa paura. Cambiare fa paura. Spesso è più confortevole rimanere immobili anziché evolversi”.
Immutabili nella forma assunta in un momento di sofferenza, saldamente ancorati al nostro caro vecchio dolore, come intrappolati in un bozzolo ingannatore che protegge ma non prevede metamorfosi. La protagonista di questo romanzo, però, trova il coraggio di trasformare in un’opportunità di evoluzione l’irruzione della vita nella sua esistenza. Tra la fuga, l’immobilismo e la speranza, sceglie la speranza.
“Crisi in greco significa opportunità, occasione. Io ci credo. Anche la gioia, e non solo il dolore, è maestra di vita. Entrambe queste dimensioni ci chiedono di essere attraversate. Di fronte al dolore non si può passare a lato; bisogna passarci dentro, non marcirci però. Anche quella è una lusinga pericolosa: amare il nostro dolore per tutta la vita. Io credo che veniamo al mondo per evolvere”.
Chiara Gamberale alla vigilia dei suoi quarant’anni ha scoperto di essere incinta, e ora è mamma di Vita. Nome che è omaggio a suo padre e insieme segno di gratitudine per un dono ricevuto proprio quando non pensava più di poter realizzare questo desiderio. Così, con l’onestà che la contraddistingue, anche la maternità è entrata nel romanzo. Non solo diventando parte della storia narrata ne L’isola dell’abbandono, ma anche contribuendo a creare quell’atmosfera intima – preannunciata dalla bellissima copertina – che permea tutta l’opera. Diversamente da ciò che è accaduto in passato, infatti, anziché al mattino presto, questo romanzo è stato scritto di notte, mentre Vita dormiva.
Arianna, la protagonista, deve fare i conti con una nuova versione del suo mito. Capita a tutti prima o poi: è come un percorso a tappe, dove si fa un bilancio a ogni sosta che prelude a uno scatto di maturazione. Anche Chiara Gamberale ha dovuto fare i conti con le revisione di un mito prima di scrivere questo romanzo.
“Il mio mito è molto simile a quello di Arianna: anch’io mi sono misurata con l’abbandono. Ci sono dovuta finire dentro con tutte le scarpe per capirlo e andare avanti. A diventare genitore non sei solo tu, ma tutta la tua storia, comprese le persone che ne hanno fatto parte. È un momento di grande responsabilità proprio con se stessi ancora prima che con questa creatura meravigliosa che è arrivata: è molto importante dirsi la verità per poterle comunicare qualcosa di vero”.
Si tratta di chiudere i conti con le questioni irrisolte, soprattutto con gli strappi degli abbandoni subiti, per non “vomitarli” involontariamente addosso ai figli che verranno. Ne L’isola dell’abbandono Chiara Gamberale ha scritto “tutto”. Come ci si può sentire dopo aver compiuto un simile percorso e aver raggiunto tale livello di consapevolezza? Carichi di energie per aver chiuso un cerchio o stanchi per la fatica del viaggio? Forse “convalescenti” è la definizione migliore, perché dà l’idea di chi, nonostante l’impegno speso, guarda già avanti.
“In questa storia ho dato tutto: tutto il dolore e tutto l’amore che avevo dentro. Questo romanzo l’ho scritto a pancia fuori. E forse la vera consapevolezza è il non esserne consapevoli”.
Alessia Pavan