Intervista a Donato Carrisi

Per non avere paura della paura

Dovrebbero inventare un’onorificenza da conferire a chi, come Donato Carrisi, esporta l’italianità nel mondo ripulendola da ogni complesso d’inferiorità o stereotipo caricaturale. Alla Libreria Moderna di San Donà di Piave, dove è tornato per presentare La casa delle voci, i suoi lettori lo considerano un maestro, per aver dato dignità al thriller italiano – potremmo dire per averlo inventato -, e una guida, per la capacità di camminare all’indietro sulla linea del tempo delle nostre vite e riportarci a quei momenti dell’infanzia in cui abbiamo provato una paura paralizzante e corroborante insieme.

La vera protagonista de La casa delle voci è proprio la paura: quella ancestrale, che ti entra nella pancia come un artiglio, ti afferra dall’interno e ti fa precipitare in una voragine buia. Sembra l’evoluzione naturale di un percorso iniziato con Il suggeritore e poi sfociato in un romanzo senza delitti né cadaveri. L’approdo al thriller psicologico rappresenta un punto di non ritorno?

Probabilmente è un nuovo inizio. Non è stato facile scrivere una storia senza un crimine o un mostro, però dopo dieci anni dovevo fare un bilancio. Mi piace sperimentare e ho già una serie di idee nuove in mente. Forse questo è il periodo più prolifico della mia vita. Normalmente la gestazione di un libro è piuttosto lunga, ci vogliono almeno due anni, ma La casa delle voci ha richiesto meno tempo, tanto più che contemporaneamente lavoravo al film (“L’uomo del labirinto” N. d. R.). Uno scrittore si chiede sempre quand’è che finiranno le storie. Non siamo serbatoi inesauribili e non bisogna andare per forza avanti a oltranza. Può anche capitare che le tue storie diventino anacronistiche. Ne ho visti tanti di scrittori finire miseramente perché avevano esaurito la vena creativa e non avevano più nulla di nuovo da dire. Penso che a un certo punto abbiamo il dovere di dire basta.

Hai diretto “La ragazza nella nebbia” e ora “L’uomo del Labirinto” con Dustin Hoffman e Toni Servillo. Qualora arrivasse il momento di fermarti, il cinema potrebbe essere il piano B?

Quello è sempre stato il piano A insieme ai libri, soltanto che io in Italia per fare thriller prima ho dovuto costruire il genere perché non esisteva, soprattutto al cinema. In passato nel nostro paese i lettori di gialli erano considerati di una categoria inferiore. Invece i lettori – tutti – sono le persone migliori: non ne ho mai incontrato uno che si comportasse male.

Sei l’autore italiano di thriller più conosciuto nel mondo. Ma la fortuna non c’entra. La verità è che prima di te non c’erano scrittori così internazionali. Le tue ambientazioni passano da una Roma in pieno blackout dove è possibile orientarsi anche a occhi chiusi, ai non-luoghi che potrebbero assomigliare a qualsiasi città. E che dire dei nomi? L’esempio più recente è il protagonista de La casa delle voci, che si chiama Pietro, in classico stile italiano, ma che di cognome fa Gerber, che si può leggere all’inglese, alla tedesca e persino alla francese aggiungendo un accento, oppure addirittura alla veneta grazie alla consonante che chiude la sillaba finale… Tutto questo fa sentire a casa un lettore di qualsiasi nazionalità.

L’Italia da un punto di vista creativo è gravata da provincialismo. Noi non riusciamo più a esportare storie se non quelle di criminalità. Il nostro personaggio letterario più famoso nel mondo è ancora Pinocchio. Posso prendere un personaggio e chiamarlo Paolo Rossi? Non funziona neanche nell’immaginario del pubblico italiano. Io cerco di giraci intorno, e di superare in qualche modo questo provincialismo.

Dal 2009, anno di pubblicazione de Il suggeritore, hai sempre parlato di disagio mentale e psicologia con grande rispetto e competenza. Pietro Gerber è un ipnotista, anzi un “addormentatore di bambini”. In linea con il provincialismo italiano di cui parlavi, negli ultimi anni hai notato una maggiore apertura nei confronti di questi temi o avverti lo stesso scetticismo di sempre?

Ho semplicemente preso una storia e l’ho raccontata da un punto di vista diverso. Da allora ho cominciato a documentarmi molto, facendomi un’idea precisa di queste tecniche, per capire quali sono effettivamente utili e quali no. Se ti interroghi sull’efficacia di determinate cose lo scetticismo va bene, soprattutto quando si tratta di strumenti che esplorano la mente e l’inconscio. Bisogna domandarsi se su di noi funzionano. Io per esempio mi sono sottoposto all’ipnosi. Nel libro racconto l’episodio della prima seduta di Hanna Hall, che dice “Me ne stavo lì, rigida e con gli occhi chiusi, sentendomi una stupida (…) mi prudeva il naso e pensavo che, se me lo fossi grattato, lei ci sarebbe rimasta male”. Io l’ho vissuta esattamente così. Eppure c’era la luce del sole fuori quando ho iniziato, e quando ho riaperto gli occhi c’era buio: erano passate quattro ore e non me n’ero accorto.

Un altro tuo tema ricorrente è quello del “male necessario”. Mila Vasquez nel ciclo de Il suggeritore si interroga continuamente su questo concetto. Ne La casa delle voci scrivi: “Com’è possibile violare una regola ed essere anche nel giusto?” Indagare l’eterna dicotomia che esiste tra bene e male si ricollega ai tuoi studi universitari (l’autore è laureato in giurisprudenza e specializzato in scienze del comportamento N. d. R), oppure è solo un argomento che ti affascina?

Il mio professore di diritto penale faceva un esempio: sei in macchina in mezzo al deserto, c’è un incrocio, c’è un semaforo e ci sei solo tu; il tuo sguardo può spaziare per chilometri e vedere che non compare nessun altro. Se passi col rosso, stai violando una regola oppure no? Anche se non c’è nessuno, stai violando la regola.

Però se c’è qualcuno in pericolo e passando col rosso acceleri il suo salvataggio?

Se passi col rosso, sei in errore. Se invece lo fai a fin di bene, diventa un male necessario.

Quanto a fondo bisogna scavare nelle proprie intime paure per scrivere un thriller? È questo mondo a fare paura o le paure sono sempre le stesse e poi vengono calate nell’attualità?

Sono sempre le stesse. Prendono forme diverse ma alla fine i prodromi della paura rimangono quelli. È chiaro che cambiando la forma cambia anche il racconto. Io mi calo tantissimo nella paura, e mi diverto anche a farlo. Se non la provo io, non la provate voi. A me però non piace suscitarla, ma evocarla. Mi piace infilarvi la mano nel cuore e ricordarvi una paura familiare, perché non è un’emozione negativa: amore e paura sono sentimenti primari, che impariamo quando nasciamo e che ci fanno battere il cuore.

Ci sono sempre bambini nei tuoi libri. Quando i tuoi figli cresceranno, anche i tuoi personaggi cresceranno con loro?

Tutti siamo stati bambini e i bambini sono le creature più indifese del mondo. L’infanzia è un’esperienza che ci accomuna e questo mi permette di raccontare delle cose senza necessariamente dividere i lettori in categorie. Però quello che scrivo è chiuso ermeticamente, non è una finestra sulla mia vita. Penso che l’autore debba finire in copertina: non c’è altro spazio per i dettagli biografici. Tendo a non mettere nomi di persone che conosco, e non faccio riferimento a cose accadute. I sentimenti invece sono un altro piano. Nei miei romanzi entrano le emozioni, non la biografia. Se un giorno i miei figli dovessero cercare delle cose di me nei miei libri, sarebbe giusto dire loro che papà lì non c’è. La mia storia deve essere raccontata da me, ma a determinate condizioni… altrimenti anche il lettore si annoia, perché non è quello che sta cercando.

No, beh, di noia con i suoi thriller non è proprio il caso di parlare. Durante la presentazione, mentre Donato Carrisi divertiva il pubblico con umorismo noir facendo una voce grottesca, una signora ha bisbigliato: “Fortuna che non ho l’armadio in camera, altrimenti passerei le notti a chiedermi cosa si nasconde al suo interno”. Cara signora, temo che l’assenza di un armadio non sia la soluzione. Io, quando sul comodino ho un libro del maestro, prima di spegnere la luce controllo sempre sotto al letto. E sono certa di non essere l’unica.

Alessia Pavan